Silvia Montefoschi commenta la Bibbia: l'albero del giardino dell'Eden


Il peccato contro il "tutto" 

Il racconto biblico del peccato originale e la sua interpretazione psicoanalitica


Conosciamo tutti come finisce questa storia relativa al "frutto proibito" di quel particolare albero del giardino dell'Eden: 


[e infine il Signore Iddio li scacciò dal giardino di Eden e] “fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì”
(Genesi III, 21)

 

Così commenta la psicoanalista Silvia Montefoschi questi passi biblici inerenti al racconto del peccato contro il tutto più noto come "peccato originale":

 

         "Adamo ed Eva si nascosero così a vicenda la loro reciproca differenza. E poichè Adamo e Eva            erano contenuti in una sola persona, fu questa stessa persona che nascose a sé quell’altro da            sé che in sé portava.

[...] 
Adamo ed Eva cessarono di essere una sola persona. Eva diventò la donna che, identificata con la materia, restò l’oggetto della creazione e Adamo diventò l’uomo che, identificato con il soggetto creatore, volle ancora plasmarla, e più a suo uso e consumo che a sua immagine e somiglianza.
[...]
L’uomo, nel rimuovere immediatamente dalla sua coscienza appena nata la contraddizione che la sostanziava, rimosse anche da sé il femminile e quindi le sue origini e smarrì nell’oblio le sue radici.
[...]
L’uomo tornò a commettere quel peccato che il Dio signore che lo aveva creato aveva già commesso: il peccato contro “il tutto”.

 

(Silvia Montefoschi, “Il sistema uomo – Catastrofe e rinnovamento”, 1985, cit. pag. 11)




 "... Tornando allora al nostro discorso sull'avvento di un'era in cui l'umanità deve farsi imperitura, possiamo forse dire che, se finora l'evolversi conoscitivo dell'universo, a partire dal primo elettrone, ha proceduto grazie al formarsi di sistemi sempre più complessi attraverso il ripetuto infrangersi dei sistemi stessi e quindi attraverso ripetuti incesti, oggi sembra essersi fatto essenziale per l'economia dell'universo che il compiersi dell'incesto contempli una presenza che, in quanto soggetto riflessivo, rispecchi l'evento incestuoso, cioè il destrutturarsi e il ricrearsi della forma dell'essere; perché soltanto in questo modo l'universo potrà rispecchiare a se stesso il proprio grandioso mutamento, e diventare consapevole della propria continuità nella trasformazione, cioè consapevole di portare perennemente con sé, nel suo stesso esistere, la sua non esistenza.

 Perché ciò sia possibile l'uomo deve dunque arrivare a far coincidere la propria identità con quella dell'intero sistema umano, il che a sua volta è possibile solo se l'uomo arriva a perdere di vista il corpo particolare che egli è, per allargare la sua visione ad una dimensione spazio-temporale che abbracci il corpo dell'universo umano.

 Ma il corpo, in quanto oggetto di un soggetto, si costituisce a quest'ultimo in quanto visto da lui.

 Come può l'uomo distogliere la vista dall'individualità che egli è?

 Il sacrificio cristiano ci ha già insegnato a non riferire più il senso del nostro essere al mondo alla percezione immediata che abbiamo di noi come enti particolari, che per sopravvivere come tali devono appagare bisogni e desideri personali. E pertanto ci ha già insegnato a riconoscerci portatori in prima persona di un movimento realizzativo dell'essere, che è la volontà di Dio per ciascuno di noi, e quindi a riconoscerci in Dio.

 Qual è il passo ulteriore che bisogna fare?

 Si tratta ancora di un sacrificio. E questo nuovo sacrificio è il passo che porta forse a compimento quel processo di trasformazione della coscienza che il secondo peccato ha messo in movimento e che si presenta come nuovo atto redentivo nei confronti del nuovo peccato originale.

 Ciò che oggi si deve sacrificare è proprio la privatezza del discorso con Dio, l'appropriazione da parte del singolo uomo cristiano del rapporto diretto che la sua coscienza cristica instaura con la dimensione universale dell'essere che gli si rivela dall'inconscio.

 E ciò perché il suo terzo occhio non potrà mai realizzare la visione del "tutto" fintanto che la sua visione passa attraverso il raggio dell'occhio del singolo soggetto conoscente. E fintanto che l'uomo avrà una visione parziale di quel continuum psichico che è l'inconscio umano, e che possiamo considerare il codice genetico dell'umanità quale organismo totale, egli non potrà arrivare a conoscere l'organismo umano come un tutto. E in tal modo l'uomo non arriverà mai a riconoscere esperienzialmente nel suo interno ciò che è il suo esterno nella totalità, cioè il sistema conoscitivo che struttura il corpo dell'umanità; e tanto meno arriverà a riconoscere che l'esterno verso il quale guarda il suo occhio è ancora un interno, l'interno dell'organismo sociale.

 E' vero che l'uomo cristiano vede intuitivamente se stesso come partecipe dell'universale e vede anche, sempre grazie all'occhio della rivelazione, che il mondo a lui esterno è l'interno di un più ampio sistema. Ma in questo interno egli vede se stesso ancora come corpo individuale. Egli sa, sempre intuitivamente, di essere un elemento di una più ampia corporeità, una cellula del corpo di Dio. Ma questo corpo egli non può vederlo nella sua totalità, proprio perché resta al suo interno.

 La situazione che si verrebbe a creare nell'organismo sociale, se questa rimanesse la sola visione dell'uomo, è simile a quella che si verificherebbe nel singolo organismo umano se ciascuno degli elementi cellulari che lo compongono, portatore in sé della conoscenza del tutto, rivolgesse soltanto all'interno il suo sguardo, non riconoscendo come altrettanto essenziali alla sopravvivenza del tutto gli elementi che lo circondano.

 Gli elementi cellulari cesserebbero così di riconoscersi a vicenda come ugualmente partecipi al funzionamento di quella totalità individualizzata da un sistema di conoscenza unitario che è appunto l'individuo umano. E cesserebbero anche di scambiarsi reciprocamente le informazioni e di partecipare alla consapevolezza della totalità.

 In tal modo l'individuo umano, come sistema di conoscenza, non potrebbe mai realizzare la coscienza di sé, cioè proprio quel soggetto cosciente che noi siamo, punto di convergenza della conoscenza degli elementi che compongono il tutto, che si fa occhio che guarda all'esterno e dall'esterno guarda a se stesso come totalità.

 Qual è allora il nuovo sacrificio che il Dio profondità, tramite l'uomo, si accinge a fare?

 Sembra che ciò che si deve sacrificare sia proprio la coscienza cristica. Ma la coscienza cristica è il nuovo sistema di conoscenza che Gesù, salendo sulla croce, ha proposto all'uomo di realizzare attraverso l'imitazione, affinché l'uomo, nell'imitarlo, si facesse anch'egli un Cristo crocefisso.

 È allora proprio il Cristo crocefisso, testimone di una sacrificalità ancora soltanto individuale, che va offerto sull'altare di un ulteriore divenire.

 (...) E sembra che proprio questo secondo sacrificio, il sacrificio di Gesù che già sacrifica se stesso facendosi Cristo, ci faccia trapassare ad una nuova condizione d'esistenza, il cui tempo verrà scandito dal ritmo delle morti e delle nascite individuali, e in cui l'uomo arriverà a vedere la propria età nel succedersi delle generazioni, come il geologo vede nel succedersi delle ere l'età della terra.

 È sempre l'inconscio a confermare questa ipotesi, servendosi dei sogni della gente. Esso avverte che Cristo ha dovuto sacrificare la propria corporeità perché viveva in un'epoca mortale, mentre oggi si va verso l'immortalità.

 C'è un altro messaggio che si fa sempre più frequente e sempre più esplicito circa il senso del transitus che Cristo rappresenta. Messaggio che l'inconscio ha già avanzato e che l'uomo ha espresso con la sua arte figurativa, raffigurando il Cristo appeso all'albero della vita.

 Ma, cosa veramente stupefacente, l'albero della vita che compare nei sogni è spesso il melograno, che è anche l'albero su cui Cristo è crocefisso in un dipinto di Giotto.

 Appare allora chiaro che chi deve compiere il sacrificio questa volta non è Gesù, e per lui l'uomo adamico che accettando la lacerazione della contraddizione trapassa in Cristo, cioè nell'uomo cristico che accoglie nella propria individualità l'universale, ma è proprio l'individualità. L'uomo cristico, cioè colui che ha raggiunto la totalità dialettica della personalità individuale, deve rinunciare al possesso personale della sua visione, alla privatezza del suo dialogo interiore, per unirsi, come totalità egli stesso, ad altre totalità in una totalità più ampia, che il frutto del melograno simboleggia.

 L'albero del melograno infatti sembra proprio riferirsi a quel nuovo piano dell'essere sul quale Cristo stesso si sacrifica e sul quale risorge come nuovo organismo vivente; organismo che a sua volta si presenta come l'insieme di più organismi in un tutto, come i grani dentro il frutto del melograno e come i frutti del melograno sulla pianta che, essendo l'albero della vita eterna, non può che riprodurli all'infinito.

 L'uomo di scienza ha imparato presto a vedere in queste sintesi di elementi semplici in elementi sempre più complessi le tappe dell'evoluzione della vita fino alla specie umana.

 Ma, sempre a causa di quella distinzione sostanziale che l'essere umano si è abituato a fare tra la sua coscienza e il resto del reale, egli ha trascurato, o forse evitato, di considerare il fatto che la sua stessa coscienza sarebbe stata un giorno coinvolta nella dinamica dell'evoluzione.

 Quel giorno sembra stia per sorgere, proprio ad oriente del giardino di Eden." 


(Silvia Montefoschi, "Il sistema uomo. Catastrofe e rinnovamento",  1985)